di Andrea Napoleone

Avvocato e Dottore di Ricerca in Diritto Amministrativo

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Il 2017 ha rappresentato per il comparto edile un anno ulteriormente difficile. Secondo le ultime stime dell’Osservatorio congiunturale dell’ANCE, infatti, si è verificato nel settore un nuovo calo dei livelli produttivi (-0,1%), con un perdita complessiva dall’inizio della crisi pari al 36,5%.

Tale andamento, purtroppo, si è verificato nonostante le numerose risorse stanziate per il settore già nella Legge di Bilancio del 2017 e ciò a causa soprattutto dell’incidenza negativa del comparto delle opere pubbliche che non riesce a superare l’apporto positivo offerto dal rafforzamento della ripresa del settore non residenziale privato e dal rallentamento della caduta della nuova edilizia abitativa.

Dall’analisi congiunta di tali dati emerge, dunque, chiaramente come per rilanciare l’intero settore, che si stima contribuisca alla crescita della ricchezza italiana per circa mezzo punto percentuale, lo stanziamento di ingenti investimenti pubblici sia condizione necessaria, ma non sufficiente.

Le misure economiche predisposte dagli ultimi Governi, infatti, non hanno decisamente prodotto gli effetti sperati, a causa dell’incapacità di tradurre in cantieri le risorse disponibili e dell’inefficienza nelle procedure di spesa da parte della Pubblica Amministrazione.

Secondo l’analisi dell’ANCE, infatti, al fallimento della clausola europea per gli investimenti, che avrebbe dovuto registrare nel 2016 un aumento degli investimenti pari a 5 miliardi di euro (e ne ha di fatto invece causato una riduzione di 2 miliardi) si sono aggiunte performance di spesa degli Enti territoriali molto deludenti e lontane dai risultati sperati.

In particolare, la spesa per gli investimenti continua a ridursi, a dimostrazione di come soprattutto i Comuni non riescano a sfruttare le opportunità di rilancio degli investimenti derivanti, fra l’altro anche dalle modifiche delle regole di finanza pubblica. La cartina di tornasole di un simile andamento è lo stesso trend dei bandi di gara per lavori pubblici che nel 2016 ha visto un forte ridimensionamento, con flessioni tendenziali del 2,4% nel numero di pubblicazioni e del 18,4% in valore.

E’ dunque in altra direzione che occorre (parallelamente) concentrare gli sforzi delle istituzioni e degli stakeholders, al fine di consentire a tale comparto una crescita stabile e strutturata.

Un settore, che, vale la pena evidenziarlo, in termini di investimenti, continua a offrire un contributo rilevante (circa l’8%) alla composizione del PIL italiano, oltre alla sua lunga e complessa filiera che è già di per sé in grado di generare una fortissima ricaduta sull’intera economia nazionale, senza contare, peraltro, la sua essenziale funzione sociale.

L’ottimismo per la verità non sembra mancare. Per il 2018 la stessa ANCE prevede una crescita del 2,4% degli investimenti totali in costruzione, mentre solo sul fronte delle opere pubbliche, l’associazione si aspetta una crescita degli investimenti del 2,5%, sottolineando come il risultato tenga conto degli stanziamenti messi in campo nella precedente legislatura, dall’avvio della ricostruzione delle zone terremotate e dall’approvazione a fine 2017 del contratto di programma ANAS.

Ma, invero, più che previsioni appaiono speranze, che ancora una volta si fondano sul presupposto di ottenere una crescita attraverso il solo stanziamento delle risorse economiche. E’ dunque lo stesso metodo di analisi previsionale che resta viziato ab origine. Il contesto legislativo e istituzionale, infatti, ad oggi è immutato rispetto agli anni precedenti e, anzi, è forse ancora più complesso e complicato. Non si comprende pertanto come, alla luce dello stutus quo, ci si possano attendere risultati migliori rispetto al passato.

Per far sì che finalmente le risorse economiche si trasformino in cantieri e, dunque, in sviluppo economico, è quindi prioritariamente necessario che cambi anzitutto il contesto giuridico-legislativo di riferimento. È necessario cioè che mutino e si aprano i “canali” attraverso cui le risorse stanziate giungono alle Stazioni appaltanti e, da quest’ultime, al mercato.

E, probabilmente, prima ancora, è necessario che cambi la stessa cultura di governo, non più fondata su interventi emergenziali, ma su riforme strutturali e di ampio respiro che consentano nel medio periodo l’impiego efficiente delle risorse pubbliche e, quindi, una crescita stabile e duratura. E occorre ripartire proprio dall’attuare serie e nuove politiche (e tecniche) legislative.

Del resto, non si scorgono alternative, stante l’attuale fallimento delle politiche economiche post-crisi finalizzate al rilancio dei lavori pubblici in Italia mediante la sola iniezione di risorse, che, in oltre 10 anni di crisi economica, hanno causato un gap di investimenti in infrastrutture pari a circa 60 miliardi di euro.

A dover cambiare radicalmente, dunque, sembra in primis proprio una visione di fondo delle politiche attuate dagli ultimi Governi, la cui assenza ha portato, ad esempio, alla frettolosa entrata in vigore del nuovo Codice degli appalti, causando un vero e proprio disorientamento delle Stazioni appaltanti, al punto che, secondo i dati ANCE, solo il numero di gare bandite dai comuni ha segnato a giugno 2016 un calo del 60,3%. E il trend del 2017 è purtroppo sulla stessa linea.

Del resto, senza la previsione di un periodo transitorio per l’entrata in vigore della nuova disciplina come avrebbe potuto attendersi un differente risultato? Con quali risorse e professionalità interne le stazioni appaltanti avrebbero realisticamente potuto attuare l’immediata pubblicazione di bandi che pongono a base di gara i dettagliatissimi progetti esecutivi, anziché i più generici progetti definitivi? Altro non poteva attendersi, come in effetti è avvenuto, la (quasi) completa paralisi degli Uffici gare delle Amministrazioni pubbliche (soprattutto locali), “preoccupate” vieppiù anche dell’intervento di possibili rilievi istruttori dell’ANAC, sicuramente più numerosi e chiari, quanto ad efficacia vincolante e sanzionatoria, delle stesse Linee guida emanate in materia dall’Autorità!

E un ulteriore caos applicativo creerà certamente, da ultimo, anche il recentissimo decreto del Ministro delle infrastrutture sul c.d. BIM (Building Information Modeling), in tema di digitalizzazione degli appalti, in base al quale entro il primo gennaio 2019 sarà obbligatoria l’adozione della modalità elettronica di modellazione per l’edilizia e le infrastrutture in relazione alle opere sopra la soglia dei 100 milioni di euro e via via gradualmente fino alla totale copertura di tutte le opere pubbliche entro il primo gennaio 2025.

Ma come può realizzarsi ciò concretamente, stante l’attuale dotazione e formazione del personale interno delle stazioni appaltanti? Come è possibile stabilire che entro un anno o poco più, anche solo per poche opere, si possa arrivare alla predisposizione di capitolati in formato totalmente digitale, con tutto quello che ciò comporterà in termini anche di cambio di cultura e mentalità dei funzionari pubblici in relazione alla fase di svolgimento della gara e poi di esecuzione del contratto?

È chiaro come anche in questo caso, il legislatore abbia peccato di irrealismo e frettolosità.

Fenomeno di per sé non così grave, se non fosse per la confusione e la disaffezione istituzionale che ciò ha generato e sta ingenerando negli operatori del settore, nonché per i rilevantissimi danni economici causati, finanche in termini di molti posti di lavori persi e oramai difficilmente recuperabili.

Senza considerare, in tale prospettiva di analisi, che dei 19 decreti ministeriali attuativi delle disposizioni codicistiche ne risultano attualmente promulgati soltanto 4, vigenti, peraltro, in una sorta di “selva legislativa” ove l’operatore deve sostanzialmente andare “a caccia” della norma applicabile al caso concreto, districandosi fra disposizioni primarie inattuabili e linee guida dell’ANAC recepite o in attesa del recepimento con apposito decreto, linee guida ANAC sottoposte a pubblica consultazione e non vincolanti, ma comunque indicative a fini interpretativi!

E senza voler ulteriormente considerare, lo stesso confuso (ed errato) contenuto normativo di alcuni decreti ministeriali del MIT, che –  come nel caso del decreto sul BIM sopra citato (cfr. art. 3) – contengono non tanto e non solo disposizioni attuative, tecniche e di dettaglio, ma addirittura finanche norme “programmatiche”, come quelle sulla necessaria previa formazione digitale del personale, o sulla necessaria adozione dal parte delle Amministrazioni di “un atto organizzativo che espliciti il processo di controllo e gestione, i gestori dei dati e la gestione dei conflitti”. Più che un decreto ministeriale si direbbe un decreto legislativo!

Un quadro giuridico di riferimento, dunque, complessivamente assolutamente caotico, nel quale le Stazioni appaltanti si sono mosse (e si muoveranno) come hanno potuto, e, spesso, restando inerti anche solo per la “paura di sbagliare”, in assenza di un unico regolamento attuativo del Codice appalti e dei relativi decreti ministeriali e con il solo ausilio delle Linee guida (o best practies?) dell’ANAC e della giurisprudenza.

Cui prodest?

Certamente, come visto, né alle pubbliche amministrazioni, né alle imprese. Forse, dunque, nel breve periodo, solo allo stesso Legislatore della riforma, che contro ogni ragionevole prudenza, ha optato miopemente per l’immediata entrata in vigore del Codice e per l’adozione di un impianto e di una tecnica legislativa complessivamente perfino in contrasto con la granitica dottrina costituzionale in tema di “gerarchia delle fonti” e assolutamente svincolata dalla quotidiana e concreta “vita amministrativa” delle stazioni appaltanti.

Chiari esempi, insomma, di una sorta di “spettacolarizzazione legislativa” o di “legislazione propaganda”, di un modo di legiferare che si limita alla mera enunciazione di principi, senza poi prevederne al contempo i relativi strumenti attuativi. E con ciò facendo, bloccando di fatto la redditività degli investimenti pubblici messi in campo per il rilancio del settore. In un quadro giuridico incerto, del resto, non può che crearsi uno sviluppo economico altrettanto “incerto” e  comunque rallentato.

Ecco perché sarà quanto mai necessario in questa nuova legislatura, una rinnovata cultura del legiferare, che muova anzitutto dalla centralità del ruolo del Parlamento senza demandarne la potestà legislativa ad Autorità amministrative che, in quanto tali, non possono supplire nel tempo alla “temporanea” inattuabilità di talune norme primarie.

Occorrerà dunque limitare la stessa tecnica del c.d. “rinvio”, non essendo possibile una vincolatività normativa “a due velocità”, che avrebbe ancora una volta come unico effetto solo quello propagandistico, ma non certo quello di creare un quadro giuridico di riferimento certo e, dunque, di rilancio e sviluppo economico.

Saranno necessarie, insomma, nuove urgenti politiche legislative che sappiano essere al servizio di nuove politiche economiche “espansive”, che, così come ha dimostrato il caso del comparto edile in relazione alle nuove previsioni del Codice appalti, da sole, con queste modalità, non possono essere sufficienti, risultando anzi addirittura controproducenti al sistema nel suo complesso.

Se l’attività del nuovo Parlamento si muoverà in tale direzione, prendendo atto da un lato delle condizioni reali di ciò che si intende disciplinare e, dall’altro, che ciò che si impone a livello di normazione primaria deve fin da subito  poter essere chiaramente attuato dai soggetti destinatari delle norme (sia perché ne sono individuati contestualmente gli strumenti attuativi, sia perché il personale pubblico è stato all’uopo formato, sia perché è possibile individuare chiaramente la norma applicabile al caso concreto), le stesse risorse pubbliche stanziate saranno valorizzate al meglio e si consentirà così che le previsioni di crescita non rappresentino più solo speranze, ma solide e concrete prospettive di crescita.

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